Era una fredda sera di gennaio degli anni ’90 quando incontrai Elisa Springer, L’Università degli Studi di Lecce aveva organizzato un ciclo di seminari sulla Shoah per non dimenticare e far incontrare, agli studenti e al pubblico, personaggi e testimonianze per raccontare e farci vivere cosa fosse stato l’orrore nazista.
Il Giorno della Memoria non era stato ancora istituito. Quella sera una certa Elisa Springer, accompagnata dal figlio Silvio, entrò nella sala scelta per l’evento.
Ci bastò uno sguardo per capire che quella donna portava dentro di sé un peso indicibile. Sull’avambraccio sinistro un numero: A24020. Non un tatuaggio, ma un sigillo d’infamia. Non era solo la memoria di un’epoca di vergogna, ma il segno tangibile della crudeltà umana.
La giovinezza a Vienna
Elisa – Lizzi, come la chiamavano i suoi genitori – era una ragazza semplice, lontana dalla politica e da ogni clamore. Eppure, fu travolta da un’ondata di odio che non lasciò scampo. Era ebrea, e tanto bastava. Era nata a Vienna, il 12 febbraio 1918, in una famiglia di commercianti. Suo padre, Richard Springer, gestiva un negozio ben avviato, un’attività che permetteva alla famiglia di vivere agiatamente. La loro casa, un appartamento nel cuore della città, era un luogo di armonia, dove il profumo dei libri antichi si mescolava a quello del pane fresco portato ogni mattina dal fornaio.
Elisa ricordava quegli anni come un periodo di rara felicità. Amava la scuola e forse sognava di diventare insegnante, convinta come tanti che l’istruzione fosse la chiave per migliorare il mondo. La sua infanzia era un mosaico di piccoli momenti perfetti, illuminati dall’affetto dei suoi genitori. Elisa si considerava una ragazza viennese di religione ebraica e non un’ebrea nonostante fosse stata educata secondo le leggi e le tradizioni di questa religione. Non sentì mai il peso di essere ebrea. Almeno finchè non fu arrestata!
L’Anschluss e la discriminazione
Ma quegli anni sereni vennero spazzati via all’improvviso. L’annessione dell’Austria alla Germania nazista, l’Anschluss, nel 1938, cambiò tutto. La Vienna luminosa e vivace si trasformò in un luogo oscuro e minaccioso, dove l’antisemitismo divenne una realtà brutale e quotidiana. I clienti iniziarono a disertare il negozio di famiglia, e gli amici di una vita improvvisamente smisero di salutare.
La discriminazione è una malattia subdola, che trova terreno fertile nelle paure, nei pregiudizi e nella convenienza del momento. Elisa lo capì presto, quando vide la sua vita crollare sotto il peso di leggi ingiuste e sguardi indifferenti. I clienti che frequentavano il negozio della sua famiglia, un tempo cordiali e affabili, iniziarono a evitarlo come se dentro fosse scoppiata la peste. Ancora più doloroso fu il cambiamento degli amici, delle persone che Elisa e la sua famiglia consideravano parte della loro vita. Il giorno prima li salutavano con un sorriso, si sedevano a tavola per un caffè, magari raccontando le loro piccole e misere vicende della giornata. Ma bastò un decreto, un proclama che indicava gli ebrei come “diversi”, per spezzare quei legami. La mano che stringeva la tua un giorno si ritrae il giorno dopo, quasi temendo che il solo tocco possa contaminare. È un meccanismo crudele, che trasforma l’uomo comune, persino l’amico, in un estraneo.
È la stessa dinamica che troviamo nella storia di Pietro, il discepolo che rinnegò Gesù per paura di essere associato a lui. “Non lo conosco”, disse, pur avendolo seguito e amato. Così, anche l’amico più caro può disconoscerti quando la società lo richiede, quando il prezzo del coraggio diventa troppo alto da pagare. È un rinnegamento che nasce non dall’odio, ma dalla debolezza. È la paura che prevale sull’empatia, la convenienza che soffoca la coscienza. La discriminazione non ha bisogno di grandi proclami per attecchire, basta un sussurro, un clima di sospetto. Si insinua nelle menti e nei cuori, trasformando il vicino in nemico, il diverso in pericolo.
Il padre Richard fu tra i primi ebrei arrestati dopo la Notte dei Cristalli, il 10 novembre 1938, e deportato a Buchenwald, dove morì. La famiglia perse casa, lavoro e ogni sicurezza.
La fuga e l’arresto
Nel 1939, Elisa riuscì a fuggire insieme alla madre verso l’Ungheria, ma le due furono costrette a separarsi. La madre rimase nel paese, mentre Elisa trovò rifugio a Milano. Lì, sposò un ebreo italiano per ottenere la cittadinanza e sperare di sfuggire alle persecuzioni. Grazie alla sua conoscenza delle lingue, lavorò come traduttrice, vivendo sotto falsa identità. un nome diverso, una storia inventata, un’identità che non le apparteneva ma che, per un po’, la mantenne al sicuro. Viveva con discrezione, sempre guardandosi le spalle, consapevole che ogni errore, ogni sguardo sbagliato, potesse tradirla. Nonostante la prudenza, nel 1944, un atto di delazione la condannò. Fu arrestata il 2 agosto 1944 e, quattro giorni dopo, deportata ad Auschwitz.
Auschwitz e la lotta per sopravvivere
Il 6 agosto 1944, a 26 anni, Elisa Springer varcava, insieme a tanti altri sventurati i cancelli del campo di concentramento. Sull’arco del cancello campeggiava la scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Quando vi arrivò insieme ai suoi compagni di sventura credettero veramente di essere stati deportati in un campo di lavoro. Scoprirono in seguito che l’unica libertà non poteva altro essere che la morte. Ad Auschwitz, Elisa affrontò l’inimmaginabile. Sopravvisse grazie a un Kapò che, durante una selezione, la spinse nella fila giusta. In quel momento, il destino le risparmiò la vita. Le sue amiche, selezionate dal dottor Mengele, finirono nelle camere a gas. Elisa si aggrappò alla speranza, nonostante il dolore e le privazioni.
Auschwitz incarnava l’orrore nella sua forma più pura ma non si arrese: il suo corpo era in catene, ma nella mente si aggrappava a ogni brandello di speranza. Quella speranza che, nonostante tutto, le avrebbe permesso di sopravvivere. Non ci sono parole per descrivere ciò che Elisa sopportò in quel campo, e per molto tempo nemmeno lei riuscì a trovarne.
Nel marzo 1945 elisa fu spostata a Terezin probabilmente a sua insaputa rientrava nella soluzione finale. Nei primi giorni di aprile si ammalò di tifo petecchiale, infezione molto diffusa nei campi. Arrivò a pesare 28kg, non camminava più e poco dopo entrò in coma. Si risvegliò con una coperta addosso e incrociò lo sguardo di una dottoressa russa. Il campo era stato liberato da sovietici il 9 maggio 1945.
Il silenzio dopo la guerra
La fine della guerra non segnò la fine del suo tormento. Per Elisa, iniziava ora un nuovo capitolo, segnato dal peso della “colpa” di essere sopravvissuta, un fardello invisibile che accomunava molti sopravvissuti. Tornò a Milano, ma la città era cambiata, e con essa la sua vita. Nel 1948, si trasferì a Manduria, in Puglia, dove sposò un altro uomo e costruì una nuova famiglia. Per oltre cinquant’anni, scelse il silenzio. Nascondere il passato era per lei un modo per sopravvivere psicologicamente, ma anche una scelta dettata dal contesto. In una terra come la Puglia, lontana dagli orrori del nazismo, il suo passato sembrava estraneo e irrilevante. Non era solo il desiderio di dimenticare, ma una strategia di sopravvivenza psicologica, un modo per proteggersi da un passato che rischiava di sopraffarla. In quel silenzio, Elisa cercava di mettere distanza tra sé e gli orrori dell’Olocausto, nascondendo la sua storia persino a chi le stava vicino. Era il suo modo di chiudere quel capitolo della vita per poter continuare a vivere. Il numero tatuato fu nascosto alla vista di tutti e alla sua. Un cerotto prese il posto della pelle e dell’inchiostro indelebile che l’aveva marchiata come un animale destinato al macello dalla follia nazista.
Il lascito di Elisa Springer
Solo negli anni ’90, a settantotto anni, spronata dal figlio Silvio, desideroso di conoscere il passato della madre e chissà forse attratto dal quel numero che ella portava tatuato sull’avambraccio sinistro e cosciente che quell’inchiostro non fosse lì per motivi estetici la interroga cercando verità fino ad allora represse.
Elisa trovò il coraggio di raccontare. La sua storia, raccolta nel libro “Il silenzio dei vivi” (1997), divenne una testimonianza potente contro l’indifferenza e l’oblio. Le sue parole, lucide e struggenti, rappresentano un monito per le nuove generazioni: «Oggi più che mai, è necessario che i giovani sappiano, capiscano e comprendano: è l’unico modo per sperare che quell’indicibile orrore non si ripeta».
Elisa Springer muore a 86 anni il 19 settembre 2004.
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